lunedì 14 maggio 2012

Intermezzo: come vedevo la superficie geometrica

Ho chiesto*: come te la immagini una superficie geometrica? cosa si affaccia al tuo pensiero quando si presenta quella parola? A me, fino agli anni '90 - era il tempo che ancora si scriveva con la penna - si affacciava un foglio di quaderno e lo scrocchiare del foglio secondo il solco lasciato dal pennino.

Mi è sempre piaciuto quel rumore, a scuola pigiavo eccessivamente con la biro per ottenere fogli croccanti, e sfogliarli era bello, mi dava come un senso di lavoro accumulato, di sapere imprigionato. Ma se dovevo fare un disegno per un problema geometrico il segno diventava improvvisamente leggero. L'immaterialità dell'ente mi si imponeva, ne ero cosciente, il tutto doveva essere leggero e preciso. La matita  poi veniva ripassata, per farli più scuri, ma sempre senza lasciare solchi,  su quei segmenti delle forme già disegnate  che volevo far diventare lati di nuove forme che pensavo servissero per la risoluzione. Non avevo idea che esistessero le leggi della  Gestalt ma già ne usavo i principi. Mi divertiva scurire quel triangolo nascosto dentro un trapezio che mi permetteva di applicare il teorema di Pitagora  e di risolvere l'esercizio. Mi rendo conto ora che la superficie è sempre rimasta in secondo piano, nel mio pensiero. È sempre stata, per me scolara,
solo sostegno di forme, intese come insieme chiuso di linee.
Inoltre, senza esserne cosciente, vedevo la superficie nello spazio, anche se allo spazio non pensavo mai se non quando affrontavo problemi di geometria solida. La vedevo nello spazio, l'ho capito anni dopo, perchè lo spazio mi serviva per scriverci sopra: adoperavo il compasso verticale per disegnare un cerchio, guardavo dall'alto, china sul quaderno, le figure già tracciate mentre ne cercavo gestalt più produttive e nuove linee da aggiungere. Se fossi stato  un abitante di Flatlandia  avrei dovuto inevitabilmente usare il compasso del giardiniere (una corda con una estremità fissa, che ruota nel piano) e la superficie, nella mia mente, sarebbe rimasta avvolta nelle sue due sole dimensioni. (Le figure chiuse, poi,  sarebbero state inaccessibili alla immediata e completa conoscenza visiva perchè i lati posti di fronte agli occhi avrebbero nascosto quelli dietro di loro. Che geometria avrebbero sviluppato a Flatlandia?...)

Oggi la vedo, la superficie,  in un modo ancora diverso, ma ci arriveremo alla fine del percorso di questi post sulle Parole, è quella la meta. Dove troveremo ad aspettarci Archimede. Anche lui rigorosamente in pantofole, s'intende.
_______
(*) vedi post precedente 

3 commenti:

  1. Io ho avuto esperienze diverse. una corda, un piolo affondato e tirando la corda, magicamente compariva un cerchio perfetto. Poi, più avanti, con quei tecnigrafi a squadro dipendenti da come tiravi la carta del tavolo con le puntine da disegno e da quanto bagnavi la spugna per tenderla. La tua riflessione sul ricalco mi ha fatto venire in mente il prof. Scarpa all'università di Venezia. All'inizio del corso dava un solo foglio siglato da usare per tutto l'anno, cancellando e ridisegnando sulla stessa superficie per verificare la traccia e la solidità del tratto finale.

    RispondiElimina
  2. Ciao Mike! Interessante la faccenda della spugna, che vedo incompatibile con la carta: ma non si rompeva la carta bagnata se la tendevi? e perchè bagnarla? Interessante anche il prof. Scarpa. ai limiti della maniacalità ma capibile, In che stato è arrivato il tuo foglio, alla fine del corso? E poi, ma solo se hai tempo, che immagini e parole istintive ti costruiscono in testa quella cosa che chiamiamo superficie, in geometria? Stai sempre a Vienna? Un abbraccio.

    RispondiElimina
  3. Una volta messa la carta grossa e fissata con le puntine sotto il tavolo da disegno, la si passava con una spugna umida. Quando si asciugava si tendeva perfettamente eliminando pieghe e rigonfiamenti. Durava mesi. Poi si cambiava e si ripeteva l'operazione. L'ho imparata da un bravo geometra, non da professori e architetti superstar.Riguardo Scarpa purtroppo non sono stato un suo studente, ho solo partecipato ad un seminario dove raccontava questa cosa. Mi ha colpito e l'ho applicata ai miei lavori. Tenere conto delle tracce, delle impronte. Come se l'ultima foto poggi sulle altre, l'ultimo tratto di matita emerga da tutti i precedenti. Sì, sono anche a Vienna. Un abbraccio a te.

    RispondiElimina