lunedì 21 maggio 2012

aspettando la "molteplicità" -4- parole buone e parole fasulle

Una volta l'insegnamento e la valutazione erano armonicamente connessi: l'attività dell'insegnante in classe prevedeva momenti di verifica della crescita culturale dello studente attraverso interazioni diverse quali l'interrogazione orale, il compito scritto, l'interazione in classe, la discussione in consiglio di classe con i colleghi di altre materie, perché si considerava "globale" il suo profilo culturale. Il suo cammino formativo avveniva attraverso modalità complesse che prevedevano non solo una acquisizione di  nozioni e della capacità di applicarle, ma anche (e soprattutto) una educazione alla complessità cognitiva e morale di una società basata su alte costruzioni del sapere. Un esempio di quanto voglio dire si trova nelle parole di Pontiggia.  Nel 2008 su  radio3 hanno replicato una serie di appuntamenti con Pontiggia, andati in onda poco prima della sua morte. In queste sue chiacchierate Pontiggia esprimeva benissimo e continuamente il senso dello studio della lingua come strumento di conoscenza di se stessi e degli altri, conoscenza che altrimenti potrebbe anche non svilupparsi. Non ho spazio qui per di commentare l’importanza di questa capacità in un individuo, dico solo che se la scuola contribuisce a farla crescere, allora l’istruzione diventa anche momento altamente educativo.

Chi vuole dare consistenza speculativa ed espressiva al proprio pensiero, dice Pontiggia, è bene che si confronti col collaudo molto duro della lingua comune, nella quale le parole hanno subito un vaglio millenario. Nelle parole si deposita un sapere distillato dal tempo e uno dei momenti conoscitivi più significativi e gradevoli è quello dello studio della storia delle parole, nei millenni, che passa anche attraverso lo studio della letteratura.. È una miniera di significati sociali e personali e portano a scoperte straordinarie sulla genesi di certe idee anche solo con ciò che è implicito nelle radici delle parole usate.
La lingua comune veicola meglio l’originalità di un pensiero. Pontiggia pensa che i grandi scienziati, Planck, Eisemberg, Einstein per esempio, che parlavano in maniera semplice e piana delle loro teorie, non volevano fare mera divulgazione ma avevano ambizione più alte: quello di sottoporre il loro mondo speculativo al confronto con la lingua comune in modo che le idee nuove trovassero agganci concettuali nel lettore in una lingua condivisa e non in uno sterile linguaggio tecnico. Usare la lingua “comune” per esprimere nuove idee, scientifiche in questo caso, chiede un grande sforzo espressivo e riflessivo, non è una riduzione ma un aumento di complessità nel lavoro dell’autore, che non lo fa per allargare il pubblico o per semplificare i problemi. Galilei addirittura, scrivendo anche in volgare, ha scelto la forma del dialogo, narrativo-teatrale per comunicare meglio le proprie idee.
Collaudare le proprie teorie al vaglio della lingua comune e non in quella specialistica significa scoprire cosa è implicito nelle radici delle parole e cosa è cambiato nel tempo. Tutto questo chiede uno sforzo introspettivo notevole perché la lingua comune costituisce un ostacolo molto forte alla fine costruzione di significati, ma, se conosciuta a fondo, diventa uno strumento insostituibile di veicolazione di idee profonde.

J. Renard, riferendosi alla comunicazione di stati interiori diceva: ” c’è una sola parola e il buon scrittore la conosce”
Renard intendeva dire che dal punto di vista espressivo non esistono sinonimi in una lingua, ossia non esistono parole che possano considerarsi identiche o equivalenti.
In che senso non esistono parole sinonimiche? Pensiamo ed esempio a un sinonimo di “casa”: potrebbe essere abitazione, edificio, dimora, sede... è evidente però che "casa" ha una connotazione fortemente familiare, "abitazione" sottolinea più l’abitare, "edificio" è più tecnico, "dimora" ha connotazioni intime e affettive.
Tra faccia e viso c’è una notevole differenza perché "viso" è una parola colta e mantiene il distacco mentre "faccia" invece è un termine carnalmente sincero e immediato . Difficile che qualcuno ti dica "che brutto viso hai stamani" oppure, "viso di merda", ma piuttosto "che brutta faccia hai!" ecc... ….
Ancora: viso e volto differiscono di una vocale ma evocano sensazioni e immagini distanti tra loro: la "o" di volto è più rotonda e carnale della "i" di viso, si evoca il volto dell'amante, "viso" invece va meglio per una Beatrice.
La ricerca poetica incide su questi significati, che influiscono sulla prosa, e viceversa la prosa, nel tempo, contamina la poesia.

Lo studio della lingua e della letteratura ha dunque anche questo particolare obiettivo: creare nell'adolescente il maggior numero di significati legati al suo crescere come una persona emotivamente complessa e fornire anche le parole giuste per esprimerli. Lo studente che non è sensibile alle differenze di sfumatura dei sinonimi o che non vede nessuna differenza tra "andare" e "recarsi" perde una parte importante dell'istruzione scolastica, forse la più importante. Dice Pontiggia, che "si va" al gabinetto e "ci si reca" dal preside, e che questa differenza insegna qualcosa che può aiutare a comunicare pensieri personali o speculativi.
Tale sensibilità non è necessariamente cosciente e neanche la si deve saper necessariamente esercitare in maniera creativa e originale, ma se si sviluppa rende l'individuo capace di guardare agli altri in modo profondo e di crescere nella propria complessità interiore attraverso esperienze comunicabili nella loro qualità umana più intima.

lI gergo giovanile, quello estraneo alla scuola, è inventivo per propria natura, è vero, ed anche fortemente condiviso, però questo linguaggio gergale serve a difendersi dall’esperienza, non ad approfondirla. Per esempio, nell’esperienza erotica il gergo è un linguaggio liquidatorio che uniforma le esperienze, le quantifica: ho fatto questo, ho fatto quello… neutralizza l’esperienza emotiva e fa diventare tutto uguale. In questo eccellono i maschi. Tutto questo pregiudica loro l’accesso all’esperienza che hanno avuto e in alcuni di loro pregiudica non solo la conoscenza del proprio animo ma anche lo sviluppo di empatia e riconoscimento di quello altrui.
Il linguaggio può essere molto violento. Si chiede oggi al personaggio di turno "come vive la gestione della sua vita sessuale" e non si tien conto che una persona nella vita di solito non ha una "vita sessuale" ma una fidanzata, un'amante, un moroso, una moglie, un marito e che di solito non è con la categoria della "gestione" che vive questi affetti.. Che frattura tra la realtà e le parole che vorrebbero raccontarla!

La povertà o la mancanza di congruità di linguaggio (direi meglio: di cultura in senso lato, di quegli aspetti della cultura che qui sto cercando di far emergere ) si evidenzia in questo episodio giornalistico: un personaggio importante che a un certo punto delle sua brillante e riuscita carriera ha scelto di seguire la vocazione di missionario si è sentito rivolgere questa domanda: "qual è la molla che ha fatto scattare il meccanismo della conversione?"
Sembrava si chiedesse il resoconto della conduzione manageriale di un'azienda e non di movimenti intimi e interiori, sotterranei, che alla fine emergono lentamente in superficie e si diffondono, dopo essersi sviluppati a lungo nel tempo e nel profondo dell'anima. Il linguaggio del giornalista allontanava il lettore dalla comprensione, liquidava l’esperienza rendendola vuoto stereotipo, non la avvicinava alla sensibilità di chi ne attendeva il racconto.

L’assimilazione dell’esperienza passa quindi anche attraverso l’appropriazione di un linguaggio adeguato, appropriazione che non si può effettuare e valutare facendo studiare a mente elenchi di parole "appropriate" e facendo mettere una crocetta sulla parole giusta. Qualunque semplificazione della complessità uccide l'effetto finale atteso.

Nessun commento:

Posta un commento